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Circolo del Cinema Bellinzona



YASUJIRO OZU
o la sobrietà dello sguardo

gennaio – febbraio 2026

YASUJIRO OZU da The Mainichi Newspapers Co., Ltd. / Wikimedia

Spesso definito «il più giapponese dei registi giapponesi», Yasujiro Ozu (1903 – 1963) ha girato 53 film in quarant’anni di carriera. Eppure i suoi primi lavori nel periodo del muto (dalla fine degli anni ’20 all’inizio dei ’30), molti dei quali andati perduti, erano chiaramente influenzati dalla commedia slapstick americana e quindi intrisi di cultura occidentale. La transizione verso lo stile della maturità non è immediata, ma già nel corso degli anni ’30, in alcuni film muti (Ozu approderà al sonoro solo nel 1936), avviene l’adesione al genere dello shomingeki, spettacolo che ha come protagonista la «gente comune». In quegli anni Ozu si è già affermato in patria come un regista di successo e i suoi film si andranno progressivamente concentrando sul tema della famiglia, in particolare sul rapporto tra genitori e figli, tema che non sarà più abbandonato anche nei capolavori del dopoguerra, dove appare evidente la «giapponesità» del suo linguaggio cinematografico.

La vita di Ozu è stata una vita ordinaria. Se si eccettuano gli anni in cui viene mandato a combattere in Cina (dal 1937) e un soggiorno nel dopoguerra in un campo britannico di prigionieri a Singapore, la sua vita è priva di avvenimenti salienti: mai sposatosi, ha vissuto tutta la vita con la madre e, entrato già nel 1923 nella casa di produzione Shochiku, vi è rimasto fedele fino alla morte.

Già nei suoi ultimi film degli anni ’30 e poi in quelli dei primi anni ’40 si è andato delineando lo stile inconfondibile del regista, essenzialmente teso verso la spoliazione di ogni artificio ritenuto superfluo: riduzione, se non eliminazione, dei movimenti della macchina da presa, rifiuto delle dissolvenze, delle angolazioni oblique, riprese frontali degli attori che spesso guardano in macchina, forte presenza di ellissi che cancellano dalla rappresentazione avvenimenti importanti per invece concentrarsi sui «tempi morti», precedenti o successivi a tali eventi (ad esempio un matrimonio, una morte). E poi la scelta che più lo caratterizza, la posizione bassa (a pochi centimetri dal suolo) della macchina da presa, in modo da dare allo spettatore la sensazione che i personaggi si situino su un palcoscenico, al di sopra del suo sguardo.

Col tempo questa estrema semplicità delle riprese si radicalizza e si focalizza nello spazio della casa, con le sue prospettive geometriche, accentuando le linee orizzontali e verticali tipiche degli interni giapponesi.

Il rapporto tra genitori (spesso uno solo, vedovo) e figli diventa, nei film del dopoguerra, praticamente l’unico tema che Ozu affronta in tutte le sue possibili sfumature. Il nucleo familiare viene progressivamente depurato da ogni dimensione sociologica, ancora presente nei film degli anni ’30, assurgendo a modello universale, comprensibile anche al di fuori della realtà del Giappone. Tuttavia nei suoi film si avverte quella «serena accettazione dell’ineluttabile» (per dirla col Mereghetti), tipica di una certa cultura giapponese e estranea alla mentalità occidentale. Un’altra particolarità giapponese, fedelmente riportata nei film di Ozu, riguarda lo sguardo delle persone che interagiscono: mentre noi abitualmente tendiamo a guardarci negli occhi (e il cinema occidentale rappresenta questo atteggiamento sia con un’unica inquadratura sia con la tecnica del campo-controcampo), i giapponesi evitano di farlo, portando lo sguardo su uno spazio comune: da qui l’estrema prudenza di Ozu nel mostrare conversazioni in cui i personaggi si trovano faccia a faccia, preferendo che gli stessi siano collocati uno accanto all’altro e che lo spettatore abbia l’impressione che i loro discorsi siano rivolti a lui[1]. Si può quindi sempre considerare Ozu come «il più giapponese dei registi giapponesi», ma è pur vero che il suo cinema, così diverso da quello cui siamo abituati, è in grado di emozionarci toccando temi che sono anche i nostri.

Il Festival di Locarno aveva dedicato una retrospettiva a Ozu, con una dozzina di film, nel lontano 1979, ma i cineclub ticinesi non avevano finora mai organizzato una rassegna di film di questo indiscusso maestro del cinema, scoperto in Occidente assai tardi, dopo i coevi Kurosawa o Mizoguchi. Anche la sua influenza sul cinema occidentale è stata limitata (si potrebbero citare Bresson per la depurazione del linguaggio cinematografico e anche Wim Wenders, che gli ha dedicato un commosso e rispettoso omaggio nel 1986 con Tokyo-Ga e che in Giappone è tornato recentemente con Perfect Days, film di una «semplicità» che può ricordare quella di Ozu). L’occasione di proporre ora una selezione della sua filmografia ci è data dalla trigon-film, che ha nel suo catalogo tutti i nove film del nostro programma e che ringraziamo qui sentitamente.

Solo a Locarno si potrà vedere il film di Ozu più importante del periodo muto, Sono nato, ma…, film battistrada di tutta la sua produzione successiva (a Bellinzona l’avevamo presentato nel 2009 con un accompagnamento musicale dal vivo). Gli altri otto (fra cui due capolavori assoluti, Tarda primavera e Viaggio a Tokyo, testimoniano egregiamente il percorso artistico del regista dal 1942 al 1960. E anche la sua scelta di affidarsi quasi sempre agli stessi collaboratori: il co-sceneggiatore Kogo Noda, il direttore della fotografia Yuharu Atsuta, l’attore Chishu Ryu…


Michele Dell’Ambrogio
Circolo del cinema Bellinzona


[1]Si veda, a questo proposito, l’interessante articolo di un critico e storico del cinema giapponese: Sato Tadao, Le point de regard, «Cahiers du cinéma», 310, avril 1980.

Per un approfondimento sul cinema di Ozu, segnaliamo il libro più recente apparso in italiano: Dario Tomasi, Il gusto del saké: Ozu Yasujiro e il suo cinema, Torino, UTET Università, 2024; e anche Yasujiro Ozu, Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, Prefazione di Dario Tomasi, Roma, Donzelli, 2016.


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Locandina PDF



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  1. trigon-film, Ennetbaden

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Ultimo aggiornamento: 8 dicembre 2025

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