INGMAR BERGMAN
parte seconda: Gli anni sessanta
CIRCOLO DEL CINEMA DI BELLINZONA
settembre 06 - maggio 07
PRESENTAZIONE

di Michele Dell'Ambrogio

Amo molto il pubblico. Mi sono sempre detto: “Devo essere molto chiaro, devono capire ciò che dico, non è difficile” e molte volte mi sono reso conto di non essere stato abbastanza semplice, abbastanza chiaro. Ma in tutta la mia vita, ho sempre lavorato per il pubblico. (1)

Non credo nell’ispirazione (…) Credo che l’ispirazione sia un’idea romantica, l’idea che le cose vengano da Dio. Ma se non si crede in nessun Dio, se si crede semplicemente nel proprio lavoro e non nell’ispirazione, si crede nella propria personale capacità creatrice, nell’esperienza, nell’applicarsi. Io credo nell’applicazione. Sono molto pedante e cerco, almeno nel mio lavoro, di essere onesto. (1)

  Per me, girare un film rappresenta giorni di lavoro inumanamente accanito, fatiche, occhi pieni di polvere, odori di cerone, sudore e lampade, una serie infinita di tensioni e rilassamenti, una lotta ininterrotta tra il volere e il dovere, la finzione e la realtà, la coscienza e la pigrizia. Penso alle levate di primo mattino, alle notti insonni, a un sentimento più acuto della vita, a una specie di fanatismo imperniato sul solo lavoro, per il quale divento io stesso finalmente una parte integrante della pellicola, un apparecchio ridicolmente minuscolo, il cui solo difetto è l’aver bisogno di mangiare e bere (…) Girare un film è come cercare di domare una belva preziosa e inafferrabile: ci vogliono chiarezza, meticolosità, calcoli rudi ed esatti. Aggiungete un umore inalterabile e una pazienza che non è di questo mondo. (2)

 

Ingmar Bergman

da

  • Olivier Assayas e Stig Björkman, Conversazione con Ingmar Bergman, Torino, Lindau, 1994 (1)
  • Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Firenze, La Nuova Italia, 1974 (2)

 

Gli anni Sessanta sono per Ingmar Bergman, ormai riconosciuto internazionalmente come un autore, gli anni della riflessione sul “silenzio di Dio” e sull’incomunicabiltà fra gli uomini in una società costantemente minacciata dalla catastrofe. Il suo cinema, fino ad allora spesso e volentieri  permeato dalla leggerezza e dall’ironia, si fa cupo e disperato e sempre più teso verso uno sperimentalismo formale che in certe occasioni lo allontanerà  dal grande pubblico.

Già ne La fontana della vergine (1960), il film che inaugura questa seconda parte della retrospettiva, la presenza di Dio assume una funzione drammaturgia che si concretizzerà nel miracolo della sorgente purificatrice, segnale ancora di una speranza, se non di una fede, in qualcosa che possa contrastare la brutalità e la violenza del mondo.

Ma è nei film della cosiddetta e celebre trilogia (Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio), realizzati tra il 1961 e il 1963, che il problema di Dio (o meglio della sua assenza) diventa centrale e indissolubilmente legato a quello dell’impossibilità per l’uomo di rivelarsi all’altro. In realtà è Bergman stesso a suggerirci, molti anni dopo, come la vera svolta nella sua produzione sia rappresentata non dal primo, bensì dal secondo di questi film, una dolorosa messa a nudo della propria persona, fino a quel punto ancora prigioniera della magia ma anche del trucco del teatro. Più che di “perdita della fede”, si tratta per il regista di constatare impietosamente di non averla mai avuta (Luci d’inverno), così come di affondare la lama negli “orrori” della carne e della storia (Il silenzio). In seguito sarà tutto un succedersi di ritratti di anime spoglie, condannate alla propria lancinante solitudine e impossibilitate a trovare conforto in chi gli sta accanto, mentre dal reale sembrano giungere, trasfigurati dai deliri individuali, solo segnali di guerra e di morte (Persona, L’ora del lupo, La vergogna, Passione, che vedono la luce negli ultimi anni del decennio, tra il 1966 e il 1969)

Il lupo, cioè Bergman stesso, spesso perde il pelo ma per fortuna non il vizio; sempre più solitario, prima e dopo il ritiro nella sua isola di Farö, ama concedersi di tanto in tanto lo sberleffo grottesco e il divertissement, come ne L’occhio del diavolo (1960) o in A proposito di tutte queste…signore, primo film a colori del Nostro, varianti “leggere” della stessa esigenza di rigore tematico e formale; o addirittura gli piace sottrarsi all’imperativo della narrazione cinematografica per ritornare alla mai sopita passione per il teatro, come ne Il rito (1969).

La produzione degli anni Sessanta è qui praticamente tutta rappresentata, se si eccettuano il cortometraggio Daniel (episodio del film Stimulantia, 1965) e un documentario sull’isola di Farö (Farö-Dokument, 1969). Per questo siamo particolarmente grati a Gianfranco Zappoli, che ci ha fornito le copie di alcuni film altrimenti introvabili se non in discutibili versioni doppiate.

La retrospettiva dedicata al maestro svedese non è comunque finita qui: la prossima stagione sarà quella dei capolavori a colori firmati tra il 1970 e il 2004.

 

 

Michele Dell’Ambrogio

Circolo del cinema Bellinzona

 

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