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THE SHOP AROUND THE CORNER
Scrivimi fermo posta, 1940
Sceneggiatura:Samson Raphaelson, da una commedia di Nikolausz Laszlo; fotografia: William Daniels; musica: Werner Heymann; interpreti: Margaret Sullavan, James Stewart, Frank Morgan, Joseph Schildkraut, Felix Bressart, Sara Haden, William Tracy, Inez Courtney, Sarah Edwards, Edwin Maxwell, Charles Halton; produzione: Ernst Lubitsch per Metro Goldwyn Mayer.
35mm, bianco e nero, v.o. st. f/t, 97'
Nel “negozio dietro l'angolo” un fattorino salva dal suicidio il proprietario Matuseck tradito dalla moglie, mentre i commessi Alfred e Klara si scrivono fermo posta delle lettere romantiche ignorando l'identità del destinatario.
(Il Mereghetti. Dizionario dei film 2008, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007)
The Shop Around The Corner è un film molto bello, per certi versi il più sincero e il più struggente dei film di Lubitsch. Un ritorno al mondo di Meyer, alle bottegucce delle vecchie comiche berlinesi, si realizza con una sorta di cannocchiale rovesciato, all'insegna della nostalgia e dell'affetto: la lontananza crea un alone lievemente fantastico, a contrasto con l'ansia di evasione che caratterizza i personaggi principali. C'è un fattorino, Pepi (William Tracy), che vuole diventare commesso; il padrone (Frank Morgan) è un brav'uomo tradito dalla moglie: la modesta escalation del primo (che salva il secondo dal suicidio) non ha più nulla dell'asprezza, della frenesia che animava la sete di successo dell'apprendista berlinese; tutto rimane circoscritto all'interno del “negozio all'angolo”, dove il triangolo borghese, la commedia degli equivoci, le gags tradizionali (legate soprattutto al Pirovitch di Felix Bressart, il più surreale dei tre russi di Ninotchka) sembrano stemperarsi in una lieve, indefinibile malinconia. E all'interno, centro dei cerchi concentrici del film, l'opposizione vicino/lontano si realizza ironica e perfettamente calibrata nella vicenda dei due commessi Alfred e Klara (James Stewart e Margaret Sullavan), che corrispondono romanticamente fra loro senza saperlo, creando con la fantasia un'immagine di sé e della propria invisibile anima gemella che è al tempo stesso rovesciata e complementare rispetto alla realtà.
Noi, al solito, sappiamo già tutto: e così la “camera”, e Lubitsch. Ma ciò non toglie che possiamo seguire i passaggi ben congegnati del progressivo “palesamento” (l'appuntamento al caffè, la messinscena finale) senza la minima impazienza, e senza la maliziosa complicità che ci invitava alla strizzatine d'occhio all'epoca delle commedie Warner. Il lieto fine è scontato, ce ne sono tutte le premesse: e il film ci giunge con lo stesso marchio M.G.M. che al lieto fine aveva letteralmente condannato la vedova allegra e il suo conte Danilo. Quindi, come Lubitsch, non abbiamo nessuna fretta di vederlo realizzarsi sulla scena: quel che conta è l'attesa, l'equivoco, il rimando, la proiezione di quel discorso tutto prevedibile sul piano del desiderio e dell'immaginario.
(Guido Fink, Ernst Lubitsch, Firenze, La Nuova Italia, 1977)
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