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Alpi bavaresi, 1942: Hitler (Mosgovoi, straordinario), accompagnato da Goebbels (Sokol) e Bormann (Bogdanov), raggiunge la sua amante Eva Braun (Rufanova) in un castello arroccato tra i monti. Lui è vegetariano, wagneriano in pantofole e ipocondriaco; i suoi gerarchi servili e gelosi; lei è naturista e sembra non rendersi conto della tragedia che avviene poco lontano, anche se alla fine è l’unica ad avere un briciolo di consapevolezza. Sokurov prende la Storia alle spalle, a volte riprendendola dal buco della serratura, ma non vuole raccontare solo il quotidiano. Riflette piuttosto sull’indissolubile unione di follia, orrore e ridicolo che è alla base del potere. La sceneggiatura (curiosamente premiata a Cannes) non scioglie tutti i nodi, e ogni tanto si perde in fumisterie ermetiche (Hitler è l’anticristo ) o ambiguità (che cosa significa insinuare che il Führer era ignaro dei lager ). Ma l’occhio di Sokurov, assolutamente anti-teatrale malgrado il ritmo assorto, costruisce un mondo mostruoso nella sua banalità (Hitler che balla o che si accovaccia per fare i bisogni), che trasfigura ogni volta con una fotografia arcana e un sonoro cavernoso dai molti echi, quasi lynchiano. È meno risolto di Madre e figlio ma spesso fa venire i brividi, ed è da paragonare per lucidità più al Salò di Pasolini che all’Hitler di Syberberg.
(Mereghetti) |
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