CINEMA E CIBO
LA GRAINE ET LE MULET
Cous cous
di Abdellatif Kechiche
Francia 2007
Soggetto: Dominique Arce; sceneggiatura: Abdellatif Bechiche, Ghalya Lacroix; fotografia: Lubomir Bakchev;
montaggio: Ghalya Lacroix, Camille Toubkis; scenografia: Benoît Barouh; interpreti: Habib Boufares, Hafsia
Herzi, Faridah Benkhetache, Abdelhamid Aktouche, Bouranouïa Marzouk…; produzione: Claude Berri per
Hirsch/Pathé Renn Productions.
35mm, colore, v.o. francese st. t, 151’
Slimane è un operaio arabo sessantenne che vive a Sète, vicino a Marsiglia. Nel cantiere navale
nel quale lavora progressivamente si vede ridurre le ore di ingaggio. Alla fine è costretto a lasciare.
Sebbene sia sposato con Souad, dalla quale ha avuto sei figli, convive da tempo con Latifa, che
gestisce un piccolo albergo. D’accordo con Rym, la figliastra che lo considera un padre, decide di
non restarsene con le mani in mano e di investire la sua liquidazione nella trasformazione di un
barcone abbandonato in ristorante sul mare con cucina maghrebina. La specialità di sua moglie
Souad, con cui mantiene i rapporti, ma in clima di perenne turbolenza, è il cous cous al pesce. Per
la serata di inaugurazione del suo ristorante, Slimane decide di invitare tutti per gustare la
specialità della moglie, soprattutto i funzionari ai quali deve dimostrare la validità del progetto per
ottenere le licenze e i prestiti necessari. Ma le cose non andranno come previsto…
Il titolo originale, La graine et le mulet, è traducibile indicativamente come “La semola e il muggine”
o ancora “I granelli e il pesce”, che sono poi gli ingredienti del cous cous al pesce…
I rituali del pranzo e della cena, nel cinema, costituiscono momenti privilegiati per sorprendere la
natura dei personaggi nell’intimità solitaria del quotidiano come in un’occasione di confronto con un
altro. Intorno al tavolo dove si mangia, possono affiorare i conflitti latenti, innescandosi tensioni che
finiscono per diventare rivelatrici delle dinamiche di potere e sopraffazione, o di complicità ed
empatia fra gli individui. Può anche non accadere nulla, in apparenza: i corpi dei personaggi si
nutrono, devono, parlano, si guardano o non si guardano, e la loro storia affiora nella pura
espressività di gesti improntati ad una ritualità inconsapevole, nella luce in cui avvengono,
nell’alchimia che si crea fra due corpi presenti in uno stesso acquario domestico, all’interno di
un’abitazione o all’esterno. Il teatro del pasto è infatti un teatro fisico, dove il corpo parla anche se
il personaggio tace, dove gli atti e i silenzi si concertano intorno al rito del nutrimento.
(Roberto Chiesi, in “Cineforum”, 472, marzo 2008)