ROBERT
BRESSON

settembre 2003 /
maggio 2004

CIRCOLO
DEL
CINEMA
BELLINZONA
ROBERT BRESSON

settembre 2003 ----- maggio 2004

ROBERT BRESSON
testo d i Michele Dell'Ambrogio

Non un metteur en scène (espressione che si addice al teatro) bensì un metteur en ordre: così amava definirsi Robert Bresson, uno dei più grandi e dei più rigorosi registi della storia del cinema. "Quella che cerco non è tanto l’espressività delle parole, dei gesti, della mimica, quanto quella che risulta dal ritmo e dalla combinazione delle immagini, dalla loro relazione e posizione reciproca". Detta così, senza dar troppo peso alle parole, questa posizione potrebbe essere assunta da tanti altri cineasti, convinti come lo siamo quasi tutti che il cinema è un’altra cosa rispetto al teatro. Ma Bresson su questa strada è andato fino in fondo, con un’assoluta e coerente ricerca di stile mai intaccata dalle esigenze del cosiddetto spettacolo, realizzando nel corso della sua lunga vita "soltanto" tredici film scarni e disadorni, sbrigativamente etichettati come "difficili" da chi non ha avuto o non ha la pazienza e la curiosità per scrollarsi di dosso i clichés a cui un certo cinema industriale ci ha abituati. Infatti quella del regista francese altro non è che la progressiva distruzione di quella patina spettacolare con cui il cinema (o meglio quel "certo" cinema che ha saputo costruire e condizionare il nostro gusto estetico) ha nel corso della sua storia coperto e falsificato la realtà, illudendoci del contrario. Le immagini di Bresson, proprio perché spoglie, ellittiche, prive di sentimentalismo, affrontano di petto la realtà, una realtà spesso sconcertante e terribile. Come tutti i grandi, anche Bresson si interessa prima al reale che non ai mezzi per rappresentarlo. Niente di formalista, o di precocemente postmoderno nel suo percorso artistico. Alla base c’è l’interesse per l’uomo, per il mondo, per la vita e per la morte, per il bene e per il male. Semplicemente una tenace volontà di capire, una forte tensione etica. Lo stile non è mai fine a se stesso, ma nasce dalla profonda consapevolezza che per raggiungere il cuore della realtà non basta lo sguardo, né tanto meno lo sguardo della macchina da presa che non vede come vede l’occhio umano.

Da qui bisogna partire per comprendere la poetica di Bresson, basata sui procedimenti della sottrazione e della frammentazione. Sottrarre per poter penetrare più a fondo nella realtà, liberandosi dagli orpelli retorici che il cinema dominante ci impone; frammentare per "abituare il pubblico a indovinare il tutto di cui non gli si dà che una parte". Perché "non è la persona verosimile che i nostri occhi e le nostre orecchie esigono, ma la persona vera". La cosa che più colpisce nei film di Bresson è la recitazione degli attori, o meglio la "non recitazione dei non attori". Dopo i suoi primi due film, non ancora compiutamente "bressoniani", il regista non solo rinuncia agli attori professionisti, ma anche a qualsiasi tentativo di recitazione espressiva. Ai suoi "modelli" chiede di "parlare come se parlaste a voi stessi", perché l’importante non è ciò che l’interprete rivela, "ma ciò che nasconde". Non meno evidente è il lavoro sulla colonna sonora: progressiva eliminazione della musica, grande attenzione ai rumori, ripresi uno ad uno nel silenzio e riorganizzati in un accordo sapientemente dosato, nella convinzione che "il cinema sonoro ha inventato il silenzio". Rivoluzionaria, poi, la sua teoria dell’inquadratura e del montaggio: in primis l’autonomia di ogni singola inquadratura, che non necessita di essere legata alle altre per dotarsi di significato; quindi un montaggio che esclude i raccordi (sullo sguardo, sull’asse...), ma che solo nella totalità del film riesce a "dar vita" alle "immagini morte", creando un’opera di fronte alla quale non si può non rimanere meravigliati del fatto che (come ha detto Truffaut a proposito di Un condamné à mort s’est échappé) "non contenga una sola inquadratura inutile, non un’inquadratura che si possa spostare o raccorciare; in breve... il contrario di un film ‘fatto al tavolo di montaggio’".

Dopo La magnifica ossessione, dopo i tre anni di Hitchcock e i due di Buñuel, questa retrospettiva era per noi doverosa. Per (ri)scoprire uno dei più grandi registi della storia del cinema, senza paura di andare controcorrente, anzi, con la convinzione che, oggi più che mai, questa è la strada giusta, quella che può riportarci a riflettere sul senso della vita e sul senso di fare cinema. Cercare le copie dei film di Bresson non è stata cosa facile, come si può ben immaginare. Siamo però riusciti a mettere in programma dodici dei tredici film realizzati dal maestro francese (e ci dispiace molto per l’assenza di quel gioiello tratto da Le notti bianche di Dostoevskij che è Quatre nuits d’un rêveur, del 1971, ma il film sembra proprio sparito nel nulla). In questo caso, perciò, il nostro ringraziamento a chi ci ha permesso di organizzare questa rassegna è molto di più del solito e dovuto riconoscimento formale.

Michele Dell’Ambrogio

Circolo del cinema Bellinzona

Le parole di Bresson, virgolettate nel testo, sono tratte da: Robert Bresson, Notes sur le cinématographe, Paris, Gallimard, 1975; I, 1950-1958; e II, Autres notes, 1960-1974.

 

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