CIRCOLO DEL CINEMA DI BELLINZONA

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Carl Theodor Dreyer
e l’etica dello sguardo
ORDET
La parola
Regia: Carl Theodor Dreyer; soggetto: dal dramma omonimo di Kaj Munk; sceneggiatura: Carl Th. Dreyer; fotografia: Henning Bendtsen; montaggio: Edith Schlüssel; suono: Knud Kristensen; musica: Poul Schierbeck, diretta da Emil Reesen; scenografia: Erik Aaes. Interpreti: Henrik Malberg, Emil Hass Christensen, Preben Lerdoff Rye, Cay Kristiansen, Birgitte Federspiel, Anne Elisabeth Hansen, Susanne, Ejnar Federspiel; Danimarca 1954; durata 121’; v.o; st. italiano; 35 mm
Johannes Borgen, studente in teologia, ha perso la ragione e adesso si crede Gesù Cristo. Fugge nottetempo nella brughiera e a nulla vale lo sforzo del padre Morten e dei fratelli Mikkel e Anders, che non riescono a trovarlo e a riportarlo a casa. Mikkel, che aspetta dalla devota moglie Inger un bambino, non crede in Dio. Anders, il minore dei fratelli, è innamorato di Anna, figlia del sarto Peter, che odia i Borgen per le loro differenze di credo e nega al ragazzo la mano della figlia. Alla fattoria dei Borgen giunge il nuovo pastore, che viene subito accusato da Johannes di far parte di quel clero che ha tradito la chiesa. Furioso per il rifiuto di Peter, Morten ha con lui un violento alterco. Nel corso della lite, giunge la notizia che Inger ha avuto serie complicazioni. Il bambino, infatti, nasce morto, e da lì a poco muore anche la donna. Al funerale partecipa tutto il paese, e Peter ritorna sulla sua decisione a proposito delle nozze della figlia. Appare Johannes, rinsavito, appena prima che la bara venga chiusa. Invoca Dio e ordina a Inger, nel nome di Cristo, di rialzarsi. La donna torna alla vita.
Dreyer purifica all’estremo un testo teatrale di Kaj Munk e ne trae un dramma teologico, di una teologia folle ed eversiva. Da un lato, la mortificante desolazione delle liturgie e degli apparati religiosi e sociali. Dall’altro, una fanciullesca, intatta e incontrollabile volontà di rinascita che ritrova la forza sorgiva e liberatoria della Parola. Dreyer sta come sempre, dalla parte della vita, della generosità, della fiducia. Anche nel fare cinema. Un cinema vitalissimo, profondamente gioioso e puro, ieratico e liturgico, drammaticamente calmo e limpido. Una fattoria e la brughiera intorno. Un piccolo spazio umano dove scetticismo e fede, ragione e follia, infanzia e vecchiaia disegnano un quadro di intensità veermeriana. Interni severi filmati come se fossero l’anticamera dell’invisibile. Movimenti di macchina ipnotici. Immagini che sono campi magnetici. Discusso e indiscutibile Leone d’oro a Venezia nel 1955.
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